venerdì 15 maggio 2009

Peter Eisenman. Architettura come identità sospesa (Approfondimento lezione 06 maggio)

Nonostante la grande complessità della sua ricerca, e il fatto che essa si sia ormai stratificata in periodi anche molto diversi tra loro dal punto di vita teorico e stilistico, mi sembra giusto interrogarsi sull’utilità delle opere di Peter Eisenman e su come l’architetto sia sempre riuscito a sfuggire a questa domanda. Con un gesto che potremmo definire “di delirio”, Peter Eisenman è stato capace di raggirare le relazioni di utilità che ogni costruzione stabilisce tra le cose.
È necessario domandarsi: per chi è l’opera di Eisenman? Per cosa è? Per cosa sta lavorando realmente l’architetto? È molto difficile poter rispondere a questa domanda. Secondo Enric Miralles, la conoscenza dell’opera di Eisenman è utile per pensare. A cominciare dal pensarvi, si può arrivare a un punto in cui ci si interroga sul significato dell’architettura; egli presenta la sua opera con un sillogismo del tipo A=A . “Io volevo fare A (una doppia spirale, una geometria cristallina); io ho fatto A (la doppia spirale etc)” (').



La sua opera si presenta come un’immagine complessa in cui si fondono e si confondono due meccanismi: quello di generazione formale e il risultato di tale processo. Affermando la necessaria libertà di ogni progetto, egli ha rivendicato la libertà individuale come punto di partenza per fare architettura.
La sua architettura funziona realmente solo quando ce ne distanziamo. Lasciando che si muova nella complessità della realtà della quale fa parte, essa comincia, ad agire come una macchina del pensiero. Questa macchina del pensiero è la linea guida di una logica propria della ricerca di Eisenman che corre da una proposta all’altra e permette di non perdersi nel suo labirinto. In ogni sua opera, realizzata o non, esiste una geometria che è estranea alla stanza in cui si trova il visitatore, e persino una geometria che è estranea all’edificio stesso. Gli edifici sembrano essere costruiti a partire da geometrie che non vi corrispondono ma che trovano nel luogo in cui sono collocate una possibilità di esistere.







(') E. Miralles, II, III, IV … IX … etc, in “El Croquis”, numero monografico su Peter Eisenman, 87, 1997, pp. 168-171

sabato 28 marzo 2009

Dentro il computer - Hardware e software (Approfondimento sulla Sesta Lezione)

È possibile valutare la potenza dei chip attraverso una combinazione di tre elementi: la capacità d’integrazione, data dalla minima larghezza lineare nel chip, misurata in micron (1 micron = 1 milionesimo di metro); la capacità di memoria, misurata in bit: migliaia (K) e milioni (M); e la velocità del microprocessore misurata in megahertz.
Il primo processore del 1971 era formato da linee di circa 6,5 micron; nel 1980 aveva raggiunto i 4 micron; nel 1987, 1 micron; nel 1995 il chip Pentium della Intel presentava dimensioni comprese nel limite di 0,35 micron mentre già nel 1999 si raggiunsero gli 0,25 micron. Pertanto, laddove nel 1971 su un chip della misura di una puntina da disegno stavano 2300 transistor, nel 1993 ce ne stavano 35 milioni. La capacità della memoria, come indicata dalla capacità DRAM (Dynamic Random Access Memory), nel 1971 ammontava a 1024 bit; nel 1980, a 64.000; nel 1987, a 1.024.000 bit. Per quanto riguarda la velocità, i microprocessori a 64 bit degli anni Novanta erano 550 volte più veloci rispetto al primo chip Intel del 1972, e la velocità di calcolo raddoppia ogni diciotto mesi. Le proiezioni per il 2010 evidenziano un rapido progresso della tecnologia della microelettronica sia in termini d’integrazione, della capacità DRAM nonché della velocità del microprocessore.

Associata agli straordinari sviluppi dell’elaborazione parallela utilizzando microprocessori multipli sembra che la potenza della microelettronica sia ancora senza freni, incrementando inarrestabilmente la capacità di calcolo. Inoltre, la maggiore miniaturizzazione, l’ulteriore specializzazione e la riduzione del costo di chip sempre più potenti ne hanno permesso l’installazione su ogni macchina della nostra vita quotidiana, dalla lavastoviglie, al forno a microonde, all’auto, la cui elettronica, nei modelli standard degli anni Novanta, era già più costosa dell’acciaio impiegato.

martedì 17 marzo 2009

Il paradigma elettronico: una soluzione alla crisi.

“Nei primi cinquant’anni trascorsi dalla fine della Seconda guerra mondiale si è verificato un cambiamento che potrebbe incidere profondamente sull’architettura: lo spostamento dal paradigma meccanico a quello elettronico”. Con queste parole l’architetto Peter Eisenman descrive bene la situazione attuale nell’epoca dei media elettronici.

Il paradigma elettronico propone una difficile sfida all’architettura, in quanto definisce la realtà attraverso i media e la simulazione, privilegia l’apparenza rispetto all’esistenza, ciò che si vede rispetto a ciò che è.
È proprio questo concetto tradizionale di vedere che il paradigma elettronico vuole mettere in dubbio.

Non è un caso che l’invenzione della prospettiva da parte di Brunelleschi sia avvenuta in un momento storico caratterizzato da un cambiamento di paradigma, da una visione teologica del mondo a una visione antropocentrica, posizione che dal XVI secolo resiste ancora fino ai nostri giorni. Tuttavia, nonostante i numerosi cambiamenti stilistici che si susseguirono, la posizione di centralità del soggetto osservante costituisce ancora il termine fondamentale dell’architettura. Si potrebbe dire che l’architettura, in effetti, non ha mai pensato al problema della visione, poiché è rimasta legata al concetto dominante del soggetto e delle “quattro mura”. Il fatto che in architettura il soggetto sia contemporaneamente all’interno e all’esterno, a differenza di quanto avviene nella pittura o nella musica, ha fatto sì che la visione si concettualizzasse in questo modo.

L’ambito di crisi che intendo indagare è quello relativo al problema della visione, di un diverso rapporto tra “orizzontale” e “verticale”, figura e piano, interno ed esterno implicando anche una dislocazione del soggetto antropocentrico.